LA STAZIONE FERROVIARIA PIÙ VICINA
Storia contemporanea di un viaggiare d’altri tempi, ovvero Varallo Sesia e il treno che non c’è
Ho sempre viaggiato tantissimo. Negli ultimi vent’anni quasi sempre in treno. D’altra parte il nonno era capostazione. E a me i treni piacciono. Anche quando sono in ritardo e funzionano male. Sono luoghi da buone letture e, sempre più di rado, piacevoli chiacchiere.
La ferrovia in qualche modo è il fondamento della mia famiglia, la possibilità per mio padre di laurearsi e dedicarsi a una vita senza caselli, fischietti e sbuffi di vapore. Il rumore della giovinezza da studente pendolare. Il mito della frontiera americana. La canzone di Guccini. Il sogno dell’Orient Express. Un libro, La signora del caviale, che si svolge in una stazione sulle rive del fiume Po. L’unico mio romanzo ad essere stato tradotto anche in inglese: The Caviar Lady.
Ora che abito sui monti della Valsesia la stazione ferroviaria più vicina è piuttosto lontana. Prendo il treno ad Arona, sul lago Maggiore. Ci vogliono un’ora e venti minuti di auto da casa, senza traffico, senza intoppi, più il tempo per parcheggiare. Insomma, se si vuole arrivare in tempo occorre partire due ore prima. Un poco più lontana è Novara. Oppure c’è Vercelli, quasi due ore e mezza di corriera. Tutta roba di pianura.
Eppure una stazione ci sarebbe, quella di Varallo Sesia, la stazione della valle, la ferrovia che porta a Novara. In mezz’ora da casa ci si arriva. È poi per me la stazione dei ricordi, il luogo attraverso il quale ho conosciuto la Valsesia nelle giornate in cui si fuggiva da Novara, dal liceo, e si prendevano treni per tutte le destinazioni: Varallo, contornata dai monti e profumata di neve era la meta preferita. Adesso stazione e ferrovia li usano per giocare coi trenini: nel 2018, proprio perché c’è la mostra dedicata a Gaudenzio Ferrari, ci saranno ben sei corse sei (in tutto l’anno, non al giorno) di treni storici a vapore. Piuttosto che niente si viaggia in classe nostalgia, addirittura fino a Milano.
Alla stazione senza treni è sopravvissuto il bar. Funzionante, signorile e d’altri tempi, perfetto per ospitare la storia salgariana del suo gestore fino agli anni Trenta: Guido di Lusignano, il “principe buffettista” come l’avevano definito i cronisti de La Stampa, l’ultimo sedicente erede di nobile famiglia, figlio di quel Leone di Lusignano che andava narrando per Milano di essere il deposto re del Khorasan armeno.
Ecco, senza stazione, la montagna un po’ soccombe, ma credo che poco importi. Diventa al massimo materia da romanzo.
All’inizio ero scocciato. Poi ho cominciato a vedere i miei spostamenti come epopee d’altri tempi con quel partire in anticipo sull’alba che sulla strada fa incontrare volpi e caprioli ben prima di qualche umano. Alla stazione di partenza del treno arrivare è già un viaggio. È un pezzo di destino. È il riavvicinarsi lentamente al mondo dove abitano i più. Poi si parte, col regionale sempre pieno di studenti e pendolari (“Guardi come trattano il futuro del Paese: come un carro bestiame”, mi diceva sconsolato un signore anziano alla partenza di qualche figlio), si arriva a Milano, la città, con quell’architettura di stazione che sembra scritta da Carlo Emilio Gadda. Da lì partono i treni, quelli veri. Arrivarci è già un’avventura. Un bel viaggio. Si seleziona solamente un po’ di più quante volte partire.