SEMPLICEMENTE ALLA VITA

Il romanzo “Lo sciamano delle Alpi“ in una lettera recensione di Paolo Vachino

Michele Marziani
5 min readAug 26, 2020
Il poeta e conduttore di laboratori di scrittura Paolo Vachino. A destra la copertina de Lo sciamano delle Alpi.

Paolo Vachino, con cui condivido non solo una lunga amicizia ma anche i corsi di scrittura alla Fabbrica dell’Esperienza di Milano mi ha inviato una lettera sul romanzo Lo sciamano delle Alpi. Gli ho chiesto il permesso di pubblicarla.

«Carissimo Mic, se mi posso permettere, trovo questo libro il più denso e allo stesso tempo il più leggero di tutti quelli che hai scritto e che, sai, quanto ami profondamente. Viene sempre il sospetto che dipenda dal fatto che è l’ultimo in ordine cronologico. Quello più vicino. Ma non è questo il caso. È — che sei riuscito ad avverare la tua premessa. “È un po’ una favola”. Ma non è una messa in guardia del lettore. È la beneauguralità di chi sta per salpare in mare con a bordo persone che non conosce. Noi lettori. Arriveranno onde alte ma le affronteremo con il sorriso. Una maremotica bonaccia. Un bonaccesco maremoto. Questa è la superlatività del tuo narrare. Ci sono sempre spiragli di quiete in mezzo alla burrasca. Le prima onde alte arrivano subito: “‘La gente crede nell’oro, più che in qualsiasi altra cosa’. E ha bisogno di sperare di fronte alle malattie”. Fede e speranza. Hai scelto di raccontare nella stessa storia la malattia e la cura. La malattia è una domanda o una risposta? E la cura, è una domanda o una risposta? Tu non sciogli mai il nodo. Lo porti a spasso insieme alla corda. E così racconti una piccola saga familiare, i cui componenti si scambiano sciabolate verbali. Rasoiate di verità. Il legame di sangue che invece di attutire i colpi, incalza le vite. È la storia di una reunion di quattro fratelli e sullo sfondo una madre. Il termine inglese è intraducibile in italiano. Riunione: la traduzione letterale non c’entra. Forse l’etimo ci può aiutare. Ri-unire. Unire di nuovo. Tornare uno. Un tutto. Un insieme. Una famiglia, in questo caso. Come ogni vera reunion è una doppia sfida: con il tempo e con lo spazio. Pilastri sui quali si reggono le nostre identità. C’è il ritorno nei luoghi dell’infanzia. Uno spazio che secerne tempo. E come ogni vera reunion c’è qualcuno che manca. Che non c’è. Che rappresenta l’altrove. Spesso il diverso. Come in questa meravigliosa storia. Qualcuno che si è ribellato all’identità creata dallo spazio. Che ha provato a sfuggire alle maglie del tempo. Cercando un’isola che non c’è ma che — a ben guardare — c’è (direbbe Nanni Moretti).

È di stanza la distanza. E i legami sono l’antidoto più forte per colmare questa separazione. Inducono a mettersi in marcia alla ricerca di qualcuno che ci appartiene. In questo libro ci sono dialoghi che sarebbero graditi a Socrate e a Platone. Penserebbero di non avere vissuto e filosofato invano. I dialoganti della tua storia non parlano per colpire, ma per scolpire una forma che non corrisponde all’idea. Sono alla disperata ricerca di ritrovare figure che si assomigliano o che possano coesistere nella diversità. E tutto questo scambio di parole avviene dentro un paesaggio che tu riesci a rendere reale. Vivo. Icastico, direbbe il buon vecchio Contini. Sei veramente nipote dell’Ecole du Regard. Che dico nipote: forse avresti potuto azzardare un “ciao papà” a Michel Butor.

Si, perché sei il cantore del paesaggio, degli animali che lo popolano, delle piante, dei cibi, dei frutti, dei locali che hanno cambiato pelle, degli oggetti che riassumo epoche, le rappresentano, del transito della Storia nei luoghi irrisonanti ai più. Sei un rovesciatore di guanti. Mostri la fodera della realtà insieme alla stoffa di cui è fatta. E poi hai imparato stramaledettamente i tempi del narrare. Si susseguono scene che hanno la lunghezza esatta che uno si aspetta di trovare. Come infilarsi un paio di scarpe del proprio numero senza averlo saputo prima. Calzano subito. Avvolgono il piede. Scene sul palcoscenico della vita. Tre fratelli che trovano il fratello che si era dileguato, rifiutando il sistema. Cercando una via nuova da aprire, stanco delle strade già battute da altri. Adrasto. Il beautiful loser. Il meraviglioso perdente. Come sempre. Ma nei tuoi libri perdere non è sinonimo mai di sconfitta ma di alleggerimento. Di viatico verso la leggerezza del vivere. Fino allo spregio della morte. Di fronte a un fratello medico che vuole curare vite, un fratello avvocato che vuole riportare giustizia nelle vite, una sorella che vuole portare ricchezza nelle vite, compresa la sua, — Adrasto vuole semplicemente vivere, senza nessuno che si preoccupi della salute, dei torti, delle risorse economiche altrui. Anarchia che anela all’autarchia. Prendere congedo. Commiato. Commeatus. Meatus. Andare e tornare, passando da un luogo all’altro. Attraverso il meato. Un orifizio che collega un interno con un esterno. Dalla clausura della famiglia alla libertà del mondo. Come nel meato in punta ai nostri piselli ci scorre dentro piscio e sperma. Due sostanze vitali. Scoria e scintilla divina. Vita che scarta e vita che incarta, confeziona nuova vita. Infatti, è l’unico fratello ad avere generato figli. Gli altri tre sono simbolo della sterilità e dell’infertilità del mondo che non si ribella al decadimento. Adrasto porta in faccia l’emblema della sua diversità. Un tumore che gioca a carte scoperte, allo scoperto. E quello che per gli altri è solo deformità per lui è — invece — libera espressione. È la manifestazione più alta di chi ama la vita. Non la rassegnazione a una sorte ma la scelta di accogliere sul proprio corpo il diverso. E in questa storia, oltre ai quattro fratelli — tre maschi e una femmina — ci sono altre due femmine. Quasi a volere portare un equilibrio, una specularità. Una concinnitas, direbbe l’Umbertone che tanto manca. Tre e tre. Dove ancora una volta il femminile sopravanza il maschile. Per coraggio, apertura, slancio d’amore e vitale, capacità di resistere ai tentativi di oltraggio che la vita riserva. Io spero che questa tua storia diventi un film. Vorrei essere io il regista. Per potere ricreare quello che sei riuscito a creare nella mia immaginazione. Ogni volta stimolata dalla tua capacità di dare corpo a storie sempre intriganti avviluppate a temi che consciamente e inconsciamente — evidentemente — ti sono cari. La passione della pesca. Della natura. La competizione tra persone che diventa stimolo a crescere. I luoghi della memoria. Storie che dondolano tra passato e futuro. La morte. La morte dentro la vita, che si manifesta con il funerale. I tuoi sono libri di iniziazione. Ma non a culti misterici o alla massoneria. Semplicemente alla vita. Paolo Vachino».

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Michele Marziani

Leggo. Scrivo. Viaggio. Narratore, autore di romanzi. Editor. Conduttore di laboratori di narrativa. www.michelemarziani.org